SI CHIAMA ” CLUBHOUSE BOMBING”

Si chiama “Clubhouse bombing”

a cura di Francesco Longobardi

perché questo fenomeno ha preso così piede online: “Lo spazio digitale facilita questo tipo di attacchi, riducendo la percezione di gravità delle proprie azioni. Inoltre organizzare attacchi in rete è, a livello logistico, più semplice e immediato. Internet infine, grazie al possibile anonimato, permette di sentirsi più protetta e consente a persone con idee estremiste e intenzioni malevoli di incontrarsi, riunirsi con altre simili a loro e sviluppare una specie di sottocultura. Essere circondata da persone che condividono e assecondano la propria visione del mondo, senza spazi di confronto critico, tende ad estremizzare ulteriormente le posizioni”.

Relazionarci attraverso uno schermo riduce gli indicatori che ci ricordano che l’altra, in quanto persona, è simile a noi ed enfatizza la differenza, basata sulle etichette con cui ci descriviamo”. “Online spesso non siamo persone, ma idee. Ci troviamo quindi in una realtà frammentata in cui bolle contrapposte e polarizzate confliggono – ciascuna con le proprie modalità e i propri linguaggi – senza possibilità o voglia di un confronto costruttivo”.

L’attacco avviene in maniera gratuita verso le donne e ovviamente non se la prendono quasi mai con moderatori o utenti di sesso maschile. Mi è capitato dopo uno di questi episodi che i troll mi seguissero anche in altre stanze in cui parlavo e provassero a prendere di nuovo la parola, però sono riuscita a smascherarli grazie al fatto che avevano lasciato la stessa foto e lo stesso nome. Purtroppo il peggio accade anche in piattaforme come questa dove il bello è lo stare insieme”.

Già, Club house ha tantissime potenzialità ma assieme alla sua crescita vertiginosa sono emerse le criticità sulla moderazione delle room, fatte oggetto anche di aggressioni omofobe e razziste. La piattaforma ne è consapevole, infatti nell’ultimo aggiornamento ha rilasciato una nuova funzione ad hoc, ‘report for trolling’.

Non è affatto un caso che le vittime di queste violenze digitali siano spesso donne. “L’obiettivo è sempre lo stesso: indurre al silenzio. Viviamo in una cultura che promuove ancora l’idea che ci siano persone che hanno il diritto di parlare e persone che dovrebbero ‘stare zitte’”.

Il perentorio “stai zitta” imposto da un uomo a una donna può avere tante sfumature, da incursioni virtuali come queste fino all’essere esplicitato.

È utile essere consapevoli dal punto di vista tecnologico dei mezzi che abbiamo a disposizione per tutelarci da queste aggressioni, ad esempio a tal proposito la ‘Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio ha pubblicato un vademecum.

Dal suo canto, l’app Zoom ha introdotto delle funzionalità ad hoc, come la possibilità di notificare il creatore di un meeting se quella riunione è ‘a rischio grazie a un sistema che scansiona il web alla ricerca di siti e post in cui siano stati condivisi i link d’accesso al meeting.

In che modo possiamo tutelarci emotivamente come donne se subiamo una aggressione online: “Partiamo dal presupposto che la vittima non è in alcun modo responsabile dell’aggressione subita e che l’unico intervento corretto dovrebbe essere di modificare il comportamento di chi aggredisce”.

“Detto ciò, possiamo prendere atto di questo vissuto emotivo e cercare di situarlo in uno schema di lettura più ampio, in cui possiamo osservare l’evento con uno sguardo ‘esterno’. L’intenzione di chi ci attacca si fonda sulla sua visione del mondo, secondo cui noi non abbiamo il diritto di essere lì ed esprimere la nostra opinione. Essere consapevoli di questo ci permette di dare un senso al nostro vissuto emotivo e di accettare anche le eventuali componenti di paura e vergogna, indotte dal fatto che anche noi – in quanto donne – abbiamo interiorizzato quella visione del mondo che talvolta ci induce a dubitare del nostro diritto di occupare una data posizione”.

Per il resto, si ribadisce come sia “fondamentale educare le persone al rispetto dei punti di vista e delle posizioni altrui. Questo processo può essere messo in campo solo mettendo in evidenza le dinamiche sociali sottese a questo tipo di comportamenti ed agendo, a livello educativo, sullo smantellamento dei pregiudizi e delle credenze che mantengono e promuovono comportamenti discriminatori e violenti”.

Bisogna quindi agire alla fonte delle radici socioculturali di questo fenomeno d’odio.

Più che parlare di come evitare queste azioni, è ora di cominciare a discutere della loro matrice. Smettere di ridurre tutto a stupidità individuale, e domandarci quante volte abbiamo derubricato l’aggressività maschile a ‘goliardata’ e ‘bravata’, dando per scontato che la mascolinità – intesa come complesso di azioni, scelte e comportamenti tipici del genere maschile – vada bene così com’è, e che sia la femminilità a essere sempre manchevole, bisognosa di aggiustamenti, di nuove difese per sopravvivere, e a ogni discorso che prova a smontarla reagisce con ulteriore aggressività. È ora di farci delle domande su come educhiamo i maschi, e i primi a doversele fare sono gli uomini”.

Gli autori di queste aggressioni possono essere persone delle quali non sospetteremmo. Questi uomini, da giovanissimi a meno giovani, agiscono così perché esiste un sistema culturale che rende possibile tutto ciò.

“non si tratta casi isolati, siamo di fronte ad un problema sistemico che cerca di silenziare i pochi spazi attualmente disponibili in cui si può dare voce a persone e trattare tematiche spesso ignorate dai media tradizionali e dagli spazi mainstream”.

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