L’uso dei dispositivi tecnologici ha cambiato la vita di tutti, non soltanto degli adolescenti.

Recentemente è stato introdotto il termine “nomofobia”, acronimo di no-mobile-phobia, ossia la paura di rimanere senza cellulare.
Molti, ormai, non escono da casa senza avere sempre con sé un caricabatterie o addirittura un secondo cellulare. Gli smartphone sono controllati con frequenza ossessiva, così come i livelli di batteria.
E guai a recarsi in un posto in cui manca il wi-fi!
Ben 7 ragazzi su 10 sentono di poter impazzire senza cellulare e, tra i 14 e i 18 anni, passano una media di 6 ore e mezza davanti allo smartphone.
La SIP (Società Italiana di Pediatria) raccomanda di non dare ai bambini strumenti digitali prima dei 2 anni.  Fino a 5 solo per 1 ora al giorno; e fino agli 8, 2 ore al giorno, ma sempre con la supervisione dell’adulto, mai durante i pasti o prima di andare a dormire.
Qual è il rischio?
L’uso dei touchscreen potrebbe interferire con lo sviluppo cognitivo dei piccoli, che hanno invece bisogno di un’esperienza diretta e concreta con gli oggetti per affinare il pensiero e il problem solving.
Inoltre, utilizzare i dispositivi per più di due ore al giorno è stato anche associato all’aumento del peso corporeo e a problemi comportamentali. Si verificano effetti sul sonno e sulla vista per via delle stimolazioni luminose, sullo sviluppo del linguaggio e della socializzazione. E poi, in età scolare: calo dell’attenzione, della memoria e della concentrazione, impassibilità di fronte agli stimoli esterni e comportamenti aggressivi. La luce blu degli schermi è come caffeina, dà degli input al cervello come se fuori ci fosse la luce.

Leave a Comment / Uncategorized / By 3olnec

Ma perché ci piace così tanto questa vita on-line?
Innanzitutto ci sono delle motivazioni di carattere biochimico legate alla dipendenza:
quando usiamo gli smartphone, viene attivato il sistema dopaminergico: il nostro corpo ci spinge a cercare soddisfazione attraverso l’appagamento di un bisogno e più in fretta lo soddisfiamo meglio è.
Il cellulare quindi ci fa sentire immediatamente ricompensati e il nostro cervello attiva una sostanza chiamata dopamina (che è un neurotrasmettitore e un neuro-ormone che agisce sul sistema nervoso simpatico e svolge un ruolo importante per la regolazione dell’umore). Quindi, gli smartphone e i videogiochi danno continue scariche di dopamina, attivando un sistema di ricompensa continua.

Ma quel che più ci interessa focalizzare in questa relazione è la lettura psicologica del fenomeno.
La vita on-line ci piace così tanto perché ci piace sapere di essere presenti nella vita degli altri, sapere di essere pensati senza soluzione di continuità.
Perché è intollerabile pensare di poter essere tagliati fuori se non si è solerti a rispondere alle richieste che arrivano, a visualizzare notifiche, a partecipare alla vita attiva dei gruppi whatsapp.
Perché questi strumenti sono estremamente seduttivi (pensiamo allo zoom).
Perché gli smartphone ci danno attenzioni, sanno darci quello che vogliamo e in tempi immediati.
E poi perché il cellulare fa la stessa cosa che facevano i nostri genitori quando eravamo piccoli e piangevamo: ci calma. È come se dicesse: sei annoiato? Cosa ti manca? Ti do io quello che ti serve, così l’ansia si placa (Lavenia G., 2019).
Dunque il cellulare fa quello che farebbe una brava mamma: ci calma, ci contiene. La sua è una funzione molto maternalizzata, perché legata alla dipendenza.
Ma lo smartphone fa anche, talvolta, le veci del cosiddetto padre edipico (per dirla con Gustavo Pietropolli Charmet), perché dipendiamo da lui, ci ricorda che è lui che comanda, che ci dà ordini che noi eseguiamo senza ribellarci.
La vita on-line ci piace così tanto perché è così semplice: studiare, invece, costa fatica. I ragazzi oggi non studiano perché studiare è silenzio, concentrazione, solitudine e fatica.

Ritengo sia utile proporre una sorta di ribaltamento di prospettiva: considerare la dipendenza dalle tecnologie non tanto come il problema, ma come un sintomo. E, sappiamo bene dalla psicoanalisi, i sintomi non rappresentano mai il problema, ma la soluzione al problema.
Il sintomo dipendenza è il campanello di allarme di un disagio, di una sofferenza che va indagata, interrogata, ascoltata e non soffocata. Quindi il sintomo non va demonizzato perché rappresenta un tentativo estremo (e mal adattivo) di auto medicarsi, con le risorse e i mezzi di più facile accesso e fruibilità.
Dobbiamo leggere il sintomo dipendenza come la punta di un iceberg che nasconde motivazioni ben più profonde, radicate, misteriose, oscure, dolorose.
I videogiochi, ad esempio, non sono la causa del ritiro sociale, bensì l’effetto di un isolamento causato da altre motivazioni, tra cui l’incapacità degli adulti di entrare in relazione con i figli.
Ciò che spinge un adolescente ad isolarsi non è la dipendenza dalle nuove tecnologie, ma il senso di inadeguatezza e le pressioni sociali.
E quando parliamo di inadeguatezza, facciamo riferimento soprattutto al corpo:
l’infanzia infatti termina quando i figli iniziano a scoprire lo specchio. Non è dagli adulti che i ragazzi si fanno giudicare, i giudici sono loro stessi. E la percezione soggettiva della bellezza del proprio corpo si basa sul confronto. Quanto è desiderabile il mio corpo?
La sottocultura mediatica del narcisismo, del successo e della popolarità costringe i ragazzi a credere che la bellezza del corpo sia un valore imprescindibile se si vuole sperare di avere accesso all’amore, al sesso e all’amicizia.
Molto spesso, i ragazzi che hanno stretto una relazione di dipendenza da internet pensano di essere brutti, cioè di avere difetti gravissimi, al punto da ritenersi impresentabili e non degni di amore.
E allora la vita virtuale – che sfocia in vera e propria dipendenza – rappresenta un tentativo di compensare il presunto handicap estetico: non potendo essere belli, fanno di tutto per essere molto bravi nei videogames e soprattutto nei giochi di ruolo, dove primeggiare fa sentire onnipotenti, fa dimenticare la propria inadeguatezza estetica.
Gli adolescenti eremiti che hanno deciso di non farsi più vedere si sentono brutti ma sanno di essere i più bravi di tutti nelle sfide armate (“La paura di essere brutti”, Pietropolli Charmet).

Negli ultimi anni, la paura fobica della bruttezza ha spinto diversi adolescenti a ritirarsi nella propria cameretta. È il fenomeno degli hikikomori. Questi ragazzi, prevalentemente maschi, a un certo punto spariscono dalla scuola e dal gruppo, non escono di casa e si rifugiano nella propria cameretta, immersi in attività virtuali in cui la loro icona (o il loro avatar) li protegge dal pericolo del confronto sociale.
Se, infatti, il corpo biologico sparisce, sparisce anche la bruttezza sociale.
Se non vengo guardato dal gruppo dei miei pari, il presunto difetto sparisce.
Se non sento addosso lo sguardo persecutorio e indagatore dell’altro, l’ansia del rifiuto si eclissa, insieme al corpo.

Come sostiene il Prof. Charmet – tra i più influenti terapeuti dell’adolescenza – “scegliersi un nome d’arte rappresenta il tentativo di ritentare la socializzazione attraverso l’uso di un avatar che ripulisca il corpo dalle sue oscene caratteristiche, regalandogli una ritrovata possibilità di contatto e corteggiamento, sia pure virtuali. Ciò che più è doloroso è l’intuizione dell’impossibilità di amare ed essere amati da ragazzi o ragazze realmente esistenti e contattabili”.

La grande fragilità emotiva e la mancanza di punti fermi con i quali operare un sano confronto, può indurre molti ragazzi a rinunciare alle sfide sociali, per il timore di uscirne non solo sconfitti, ma anche umiliati.
D’altra parte, le enormi aspettative della società, del gruppo dei pari e della famiglia stessa riguardo ai temi della cosiddetta “riuscita sociale”, possono spingere l’adolescente a scegliere di ritirarsi, quasi per protesta, dalla gara.
Il tutto per non conformarsi all’aspettativa assai violenta e meschina del dovercela fare a tutti i costi.
Per alcuni, non è tollerabile accettare il fallimento, meglio dunque entrare in una sorta di “sciopero della vita”, in cui si protesta col proprio malessere.
Alla luce delle considerazioni suesposte, la dipendenza da internet sembra configurarsi come riparativa, cioè sostitutiva del nutrimento che normalmente eroga la realtà concreta.
Ad ogni modo, c’è da dire che la scelta di ritirarsi dal gioco sociale e scomparire nel computer per qualche anno, spesso rappresenta un semplice step evolutivo, superato il quale il ragazzo entra in una nuova fase della vita dove contano meno fascino e bellezza.
Si può guarire, ma non sempre spontaneamente: alle volte è necessario si verifichino cambiamenti d’assetto nel sistema-famiglia.
È molto importante intervenire tempestivamente, parlare con i ragazzi, cercare di comprendere come vivono la loro vita on-line, essere curiosi di loro, chiedere cosa c’è di così interessante e irrinunciabile nelle cose che vedono, mostrarsi flessibili e non giudicanti, essere coesi nelle scelte educative, affinché percepiscano la solidità del nucleo famigliare.
Occorre non responsabilizzarli in modo eccessivo, non riempirli di aspettative. Bisogna riuscire a tollerare il loro “odio” giovanile senza essere distruttivi, nonché il sentimento d’impotenza che si prova davanti a un figlio che non vuole essere aiutato, almeno per il momento. Serve pazienza: bisogna cercare di stabilire una nuova connessione col ragazzo, più emotiva, più “di pancia”. E questo vale anche nel contesto psicoterapeutico, dove è particolarmente utile addolcire quel giudice severo che li fa sentire così inadeguati all’amore e alla vita sociale.

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